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Quando si parla di moda vengono alla mente una serie di luoghi comuni accomunati dall’idea che l’entourage della moda sia la quintessenza della frivolezza, della vacuità e della superficialità. Parlare di moda è cosa da donne, un interesse che si esaurisce nei pochi attimi in cui una modella attraversa la passerella. Per comprendere del tutto i saggi di Roland Barthes, raccolti in Il senso della moda, bisogna far piazza pulita di questi stereotipi e prepararsi ad accogliere un diverso aspetto della moda. Barthes, che dà nuovamente prova di essere un sociologo strutturalista dal gusto fine e ironico, dimostra che parlare di Chanel o del colore in voga per l’estate non è cosa da femmine superficiali e materialiste, ma vera e proprio fondamento del vivere sociale. In storia e sociologia del vestito Barthes suggerisce di distinguere tra costume e abbigliamento che sono ‘la langue e la parole’ del sistema linguistico moda. E come ogni codice linguistico, anche la moda ha una storia della disciplina che si codifica nell’Ottocento romantico, quanto sorge l’interesse per la ricostruzione dei costumi d’epoca. Inoltre, come avviene per i linguaggio verbale, anche il fashion language ha un aspetto psicologico che investe la persona e il suo offrirsi e presentarsi agli altri: ne va, in sostanza, dell’accettazione individuale all’interno del gruppo sociale di appartenenza. In quest’anno è di moda il blu Barthes prende in considerazione i legami tra significante e significato del linguaggio della moda, dimostrando come questo codice sia particolarmente ambiguo. Ma in questa ambiguità vi è la libertà creativa di ogni persona che interpreta i dettami degli stili. Dopo I miti d’oggi Barthes torna ad osservare la realtà, dimostrando che quasi tutto ciò che ci circonda è un atto comunicativo e come tale analizzabile secondo gli schemi dello strutturalismo. Un libro da regalare a chi non capisce che tra uno Chanel e un Dior non c’è solo differenza di tessuti. ATTENZIONE: questo libro ha delle frasi sottolineate in matita |